Cenni sul barocco

29.06.2024

Di Biagio Ciccone

Giovanni Francesco, centese di origine (1591-1666), guercio (da cui il soprannome de il Guercino) nel senso di strabico*, giocò, dopo il primo apprendistato, con gli schietti contrasti luminosi, con una luce che lambisce solo quelle parti che non devono cadere nella cupa ombra. È qui che entra a pieno titolo nella sua epoca, con quelle sue composizioni intrecciate che lo porteranno ad insiemi dal forte dinamismo e, poi, all'apertura illusoria dello spazio. Questi, in sintesi, sono in effetti i tratti del Barocco, che si apre all'insegna della terribile "guerra dei trent'anni" che dietro il paravento di una guerra di religione, ovvero luterani contro cristiani, tra il 1618 ed il '48, vedrà allearsi, a seconda delle convenienze, anche cattolici con i protestanti al fine di conseguire la più ampia estensione territoriale possibile. Intanto nella nostra penisola la Serenissima vive isolata nel suo mare, il papato, pur di piccola estensione, esercita comunque una grande forza politica. L'Italia è divisa in molti stati, per la gran parte a dominazione spagnola: ma se l'impero iberico è malfermo e sfibrato, allora anche lo "stivale" non può che andare incontro a carestie, alle «spaventose epidemie di peste»** quale quella del 1630 al Nord e del '36 e nel '57 al Sud. Il commercio è in crisi, il settore manifatturiero arretrato; pertanto, la nobiltà gioca in difesa e torna al latifondo in un perfetto immobilismo.

Immobilismo che non si confà al Guercino ed al suo Barocco (termine dalla, probabile, doppia origine, ma riassumibile in qualcosa di bizzarro e anomalo), l'arte della meraviglia, dell'artificio, della mutabilità perché, come andava studiando Galileo, l'universo era, improvvisamente, divenuto infinito. Tanto più che la ormai più che centenaria scoperta delle Americhe stava portando ad esplorare il globo terracqueo. Quasi che il pianeta ed il firmamento si fossero fatti spettacolo. Questa voglia di ampliamento, ma lessicale, porta nel teatro al trionfo della metafora ed una nuova consapevolezza: se Cervantes ci mostra un presente fatto di «deseñgano e decadenza»***, Shakespeare fonde tragico e comico, mentre Calderon de la Barca sta in precario equilibrio tra verità e sogno. Molière enfatizza i vizi della società cogliendone gli aspetti ridicoli. Spettacolo divengono anche le esecuzioni capitali (dal valore educativo), come lo sono battesimi, incoronazioni, celebrazioni dove si ricorre agli apparati effimeri in cui l'arte diviene una realtà seconda:

Architetture in legno e in cartapesta e addobbi provvisori si applicavano a palazzi e chiese; decorazioni effimere trasformavano gli interni di sontuose dimore e poi suoni, macchine di gioia, effetti di luce creavano un gioco di inganni e disinganni ottici [...] Le opere effimere creavano sorprendenti percorsi visivi, esaltando il corredo urbano, [...] una sorta di installazione ante litteram.****

Siamo in una società, stavolta in senso lato, che non è più, sempre per Galileo Galilei, il centro del Tutto, bensì ne è una appendice, con rigorose leggi matematiche come andava scoprendo Keplero. In letteratura trionfa l'iperbole. Anche la filosofia è in fermento: se Bacon dal particolare ci porta all'universale, al contrario di Cartesio, Hobbes ci dice che l'uomo è un essere prioritariamente egoista mentre Newton scrive di uno spazio dominato dalla gravità.

Non meno in fermento le scene italiche, dove musica e teatro collaborano tra loro, dando vita al melodramma ed alla lirica. Testo e musica, così, si fanno coerenti e più comprensibili rispetto alle complesse polifonie a più voci. In tal modo la recitazione può enfatizzare i turbamenti, le gestualità, mentre le voci si fanno più emozionalmente intense.

In questo calderone di cambiamenti sconvolgenti e messe teoriche, come quel metodo scientifico che vuole la riproducibilità degli esperimenti per la convalida di una teoria (dove Torricelli scopre come misurare la pressione e Malpighi i capillari), anche l'arte segue più filoni: il Barocco, il classicismo, il realismo. Abbiamo quel classicismo dei Carracci che filtrano l'idealizzazione cinquecentesca con l'attenzione al vero (avendo come seguaci il Domenichino, l'Albani, Poussin e Guido Reni), quel vero radicale, crudo ed intenso che in Caravaggio sarà raffigurazione degli umili suoi contemporanei, metà in ombra, per una più forte drammatizzazione, metà colpiti da forte luce teatrale, con sfondi inesistenti al pari del teatro shakespeariano. Stile che si diffuse velocemente in Europa, andando da Artemisia Gentileschi a Velázquez, da Rubens a Rembrandt. Il Barocco fu il filone dell'infinito: del tempo infinito e dello spazio incontenibile, i colori si accendono, negli immensi e fittizi cieli (Il carro di Aurora del Guercino ) dove scorrazzano figure ora cristiane ora pagane. Le emozioni, siano esse terrene o celestiali, sono portate all'estremo. Deflagrano i punti di vista, la luce è elemento essenziale. È la rivincita del papato (per il tramite dell'impressionare) sul Protestantesimo, una rivincita che avviene sussurrando al fedele che è per via emotivo-sentimentale, e non con la ratio, che si giunge a Dio. Si pensi alla Santa Teresa del Bernini. Non a caso è un fiorire continuo di conventi; ne sorsero a migliaia: Roma, Milano, Napoli. Le committenze paiono non avere fine: quindi cambia lo status sociale dell'artista, professionista di mano e di ingegno e ne cambia la remunerazione.

Se incamminarsi verso il divino significa inoltrarsi verso l'illimitatezza, lasciarsi andare alla libertà immaginativa, allora nel Barocco si rifuggono gli spazi chiusi: persino le cupole, dipinte con fulgori luminosi, dilatano lo spazio, magari facendosi aiutare dagli stucchi e proponendo arditezze di scorci sempre nuovi. O, per ottenere questo stesso risultato, si fa ampio sfoggio dell'illusione ottica (Borromini a Palazzo Spada). La prospettiva la fa da padrone. Coerentemente nulla può essere più statico: pertanto i giochi d'acqua si diffondono in architettura ed i viluppi di corpi nella scultura danno vita a meraviglie quali l'Apollo e Dafne del Bernini H. La poesia non è da meno: con iperboli e similitudini (Giovanni Battista Marino), dove la celebrazione dello sfarzo non perde di vista la "vanità di vanita", in un apparente paradosso dove era sempre più impervio nascondere gli interessi temporali della Chiesa, nonché le sue diatribe e divisioni. Forse proprio per questo Mater Ecclesiae affida all'arte «il compito di comunicare in forme grandiose i valori politici e religiosi che ne legittimavano il potere».°

La sintesi di quanto sin ora detto la troviamo in Giovan Battista Marino, il quale scriveva, nel 1624, a Girolamo Preti: «la vera regola, cor mio bello, è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo».°°

*Redazionale, Guercino, «Wikipedia», consultato il 25 giugno 2024, reperibile al link: https://it.wikipedia.org/wiki/Guercino

**Carlo Bertelli, La Storia dell'arte, volume 4, edizioni Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 943

***Vittoria Kienerk, Pina Marzi Ciotti, Storia dell'Arte in prospettiva europea, Sàndron editore, Firenze 1991, p. 353

****Redazionale, Apparati effimeri: la scenografia da "festa" nella storia, in «Bright Festival» pubblicato il 10 gennaio 2019, consultato il 28 giugno 2024, al link: https://www.brightfestival.com/it/apparati-effimeri-la-scenografia-da-festa-nella-storia/

°Chiara Lachi, La Grande Storia dell'Arte, vol. 7, Scala Group editore-L'Espresso, Roma 2003, p. 113

°°Redazionale, Frase di Giovan Battista Marino, tratta da «Aforismi, meglio.it», pagina consultata il 28 giugno 2024 al link: https://aforismi.meglio.it/aforisma.htm?id=137fc