Artemisia Gentileschi, La Maddalena del 1630

06.08.2024

Artemisia Gentileschi (nata l'8 luglio 1953 a Roma), oggi giustamente riscoperta, come evidenziano le numerose mostre a lei dedicate, compresa quella attualissima in Santa Chiara a Napoli. A lungo però è stata dimenticata e ritenuta artista minore come denunciato da Tiziana Agnati: «è proprio l'Artemisia artista ad essere dimenticata, trascurata persino dagli storici suoi contemporanei».[1] La studiosa prosegue spiegando come il Baglione la citi appena in relazione al padre, mentre in Sandrart è un piccolo paragrafo nonostante una conoscenza personale tra i due; nel Baldinucci ci si sofferma velocemente sul suo periodo fiorentino; qualcosa di analogo lo troveremo nel De Dominici, ma relativamente al periodo partenopeo e ponendola in rapporto allo Stanzione. Completamente trascurata da altri studiosi secenteschi: Passeri, Bellori, Mancini, Scannelli. Nel '7-800 non le va molto meglio divenendo trafiletto in Walpole e nel De Mortone.[2] Ancora oggi la situazione non appare così mutata se tra i diciotto volumi editi dalla Scala Group nel 2003, Artemisia Gentileschi è liquidata in quattordici righe scarne e con la riproduzione di appena quattro sue tele.[3]

Invece siamo di fronte ad una magistrale pittrice; si deve a Roberto Longhi l'avvio di questo percorso che già nel 1916 redige una seria ed approfondita analisi delle opere dei due Gentileschi, sottolineando l'autonomia della figlia dal padre, pur con notevoli dubbi di attribuzione che, nel corso delle varie edizioni e dei suoi studi racchiusi in altri e diversi testi, andrà rivedendo, modificando, emendando.[4] La inquadra nel caravaggismo («non si tratta più di piani prospettici ma di piani di luce attuati in corpi che vivono in materia pittorica accordata in tonalità basse» capaci di creare un «senso di monumentalità nuova e possente»[5]) e giunge alla conclusione che tale artista vada considerata come «l'unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità».[6] Andò a bottega dal padre, Orazio Gentileschi, burbero, scontroso: la ragazza. Per tutti Misia, studia le raccolte di incisioni paterne, mescola i colori, si esercita dal vero «fiori, frutta, un teschio» o, infine, «un'ala grigia di piccione [...] che doveva figurare ala d'angelo».[7] Erano i prodromi di una carriera che la porterà assai lontano, partendo dalla sua precocissima Susanna ed i Vecchioni del 1610 [fig. A] meravigliosa la contorsione del busto, così espressiva nel voler allontanare i due uomini, in un andamento verticale che porta lo sguardo sul dramma interiore che sta affrontando la fanciulla (che «ha una smorfia adulta di spregio» come se in lei albergasse «una sofferenza troppo dura») mentre i due desiderosi uomini, con la loro lussuria, le si avvicinano e la sovrastano, venendo respinti dall'esplicito moto di avversione.

Da Roma andrà a Firenze; persiste ad esercitarsi, come scriverà la Banti, sotto il lume di lanterna; dipinge le prime Madonne con il bambino… Tele, per lei si dovette coniare un termine apposito: quella di pittora o pittoressa, che si accumuleranno facendola divenire la prima donna ad accedere nella Accademia delle arti e del disegno; potremmo qui ricordare la sua Maddalena del 1616-17, profondamente merisiana [fig. B]: per il contrasto tra il buio sfondo e la luce che la colpisce, per quella sua profonda umanità e per quel poco di sporco sotto le unghie, una piccola callosità vicino al calcagno ed in prossimità dell'alluce. Ma altrettanta fama le daranno le sue due versioni di Giuditta che decapita Oloferne (1617 Napoli; 1620 Firenze fig. C) dove siamo in «un macello così brutale ed efferato […]: è persino riuscita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale» (Roberto Longhi), ed in cui «due donne associate nello stesso lavoro, le braccia frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una donna sola» (Roland Barthes). Senza dimenticare la bellissima Allegoria della Inclinazione che fa per il nipote del Buonarroti, detto Il Giovane [fig. D]. Dipinge un nudo femminile di raro realismo, delicatamente sensuale e di una pregnante dolcezza, aggraziata, piacente, alcuni ipotizzano un velato autoritratto, carica di una silente dignità, tiene in mano una bussola (omaggio anche all'altro, nuovo e fondamentale, amico, Galileo Galilei?) che tende alla stella polare. Questa Inclinazione si staglia su un azzurro che, più sotto, si fa nuvola, atta a sostenere questa pelle color miele, in sintonia con quel suo «biondo opaco». [8] Le pennellate sono sovrapposte tra loro in modo assai uniforme, le sfumature danno luogo ad un malleabile chiaroscuro, sicchè si ha un senso di diafana levigatezza. Un nudo così seducente, dal pronipote del committente, Lionardo Buonarroti, dovette apparire inadeguato; lo fece ricoprire da un velo azzurro dal Volterrano all'incirca nel 1684 (per altri tale censura avvenne tra il 1670 ed il 1680).

Si porta a Roma, richiestissima per i suoi ritratti o per i suoi soggetti femminili [fig., non meno ricercati, a Venezia (1627-'29?) fino al suo ultimo approdo quello napoletano, dove apre una scuola di pittura. E dove l'importantissima committenza per una annunciazione per la Chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Infine, va a Londra, ad aiutare il morente padre a terminare le tavole della Queen's House.

Torna nella città partenopea: la sua bottega è sempre più grande, e per mantenerla ha necessità di avere molti aiutanti (lo Stanzione ed il Cavallino); tende a fare tele sempre di maggiori dimensioni (per venderle ad un prezzo più alto) con grandi campiture di colore sullo sfondo. Per accelerare le tempistiche tende a riprodurre i medesimi soggetti: Giuditta e la fantesca, il Trionfo di Galatea, la morte di Cleopatra, Betsabea al bagno. Fig. E

Ormai Artemisia è stanca. La data esatta della sua morte è una nebulosa: c'è chi la pone al 1656, quando la peste decimò Napoli, chi nel '53 e chi all'anno prima.

Quasi un contrappasso per questa pittrice che, più e più volte, si era soffermata nei suoi dipinti sull'attimo prima, sull'istante ultimo antecedente il trapasso, su quel labilissimo e friabile velo che separa l'esserci dal non esserci: Sansone e Dalila (1635), Giale e Sisara (1620), Danae (1612), Cleopatra (1611), Salomè con la testa del Battista (1615), Suicidio di Lucrezia (1645). Fig. F

Ormai la galleria mentale di immagini che mi affollava la mente si è quasi esaurita. Rimane solo il prendere commiato dalla esposizione in Santa Chiara e salutare un'opera che particolarmente mi sta a cuore la Maddalena del 1630-'35 (Fig. G) che fu gravemente danneggiata in una esplosione a Beirut nel 2020. Ritroviamo la gestualità delle dame artemisiane che lottano interiormente con un dolore - qui con la conversione: scegliere la strada della voluttà, incarnata dalle perle che le cingono il collo, o quella della rettitudine cristiana? Ma quello sguardo rivolto al cielo contiene in sé già il responso, come la tela, a sua volta, contiene quel giallo e quel blu così ricorrenti in Misia che fa emergere la Maddalena da un fondo scuro, come se la luce fosse non naturale ma oltremondana.

Ciccone Dr. Biagio, Storico-critico dell'Arte e della letteratura


[1] Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, Art-Dossier, Giunti, Firenze 2001, p. 6.

[2] Ibidem

[3] AA.VV., La grande storia dell'arte, Scala Group editore, Firenze 2003, vol. 7, p. 95.

[4] A tal proposito si veda anche Mina Gregori, Rileggendo "Gentileschi padre e figlia", in Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, Abscondita, Milano 2011, p. 57.

[5] Roberto Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Biblioteca Universale Rizzoli, Firenze 1988, p. 101.

[6] Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, Abscondita, Milano 2011, p. 57.

[7] Anna Banti, Artemisia, Rizzoli, Milano 1989, p. 34.

[8] A. Banti, Artemisia, cit., p. 81.